martedì 2 agosto 2022

Parole d'inni e infanzia

 

Che nascosto nei misti civeli  cantavo così, storpiando le parole e perciò senza capire cosa significasse, inginocchiata nel banco della chiesa dei Cappuccini, abitavamo a Viterbo, mentre seguivo il momento più solenne della funzione del pomeriggio e, mentre il prete alzava l’ostensorio dorato con l’ostia circonfusa da tanti raggi di metallo, pensavo che non capire facesse parte del mistero.
Di pomeriggio quando il campanile chiamava coi suoi rintocchi la mamma ci metteva i vestiti da fuori, quelli per uscire e, indossato il cappotto e calcato il cappellino di velluto blu, mi avviavo con mia sorella.
Odiavo quel cappellino blu come detestavo tutti i cappelli, quello aveva delle bande di maglia che scendevano lateralmente a coprire le orecchie e si allacciavano sotto il mento. Sento ancora le mani di mamma che me le allacciava, bello fermo. Con un fiocco. 

Scendevamo i tre piani di scale di corsa e via, fuori.
Era sempre bello uscire nel pomeriggio. Appena girato l’angolo della palazzina sfilavo dalla testa il cappello lasciando annodati i due nastri di maglia, lo tenevo sul braccio facendolo ruotare libera e felice.
L’ultimo tratto di strada verso la chiesa era in salita e s’incontravano altri bambini.
E poi dentro, nella navata, dove ci aspettava Padre Virgilio, un frate alto e simpatico. L’unico sopportabile. Ci divideva maschi e femmine in due file separate nei banchi. Dovevo rimettere il cappello perché in chiesa ci si copriva il capo. Seduti, in piedi, in ginocchio a seconda del momento e delle occhiate di una suora sorvegliante seguivamo un po’ sì un po’ no ma sempre rispettosamente e a volte bisbigliando piano tra noi. La suora recitava la preghiera del Rosario coi suoi misteri diversi giorno per giorno, seguivano le litanie e poi il sacerdote iniziava il rito dell’adorazione. I chierichetti dondolavano il turibolo coi grani fumanti di incenso. Mi dispiaceva un po’, ma non osavo nemmeno pensarlo, che solo ai maschi fosse concesso di farlo. L’incenso odoroso pervadeva l’ambiente, era il momento dell’Inno.
“Inni e canti sciogliamo o fedeli!”  e poi attendevo senza fretta ma curiosa la frase misteriosa: “che nascosto nei misti civeli”.
Solo dopo tanti anni, ripensandoci, ché allora di pensieri ne avevo molto diversi, ho capito che la scansione corretta delle parole: “nei mistici veli”. Quasi mi è dispiaciuto come fosse perso il senso, divenuto meno misterioso, e non fosse più suggestivo
Cantavo convinta i “civeli”, le perplessità di quel tipo allora non mi riguardano.
Era l’ora del tramonto e il cielo cambiava colore scegliendo il turchese e poi l’arancio, l’aria si faceva  ancora più fredda per la tramontana;  via dunque senza indugiare perché bisognava ritornare a casa.
Saltellando giù per la discesa c’era ancora il tempo però per chiacchierare con gli altri bambini, per ridere di niente, per esser felici con niente, per tenere l’antipatico cappellino sottobraccio ruotandolo, ancora allacciato dai nastri di maglia blu, come un’elica diseguale, come fosse un giocattolo.
Com'era bella la mia infanzia.