giovedì 15 marzo 2012

Visita di studio alla Galleria Borghese


 "Ma che te li porti dietro a fare? Io non vado certo con gli alunni a visitare una mostra o una galleria, e tanto meno a teatro" mi dice la collega sobria e austera, loggionista, che non si perde una rappresentazione nemmeno se le viene la scarlattina; "beati voi di lettere che andate con le classi ai Musei e non pagate il biglietto" afferma il collega Varani-Grassi che racconta di aver visitato in Umbria tutte le mostre e le opere del divin Perugino mentre omette (eppur si vede!) di aver gozzovigliato tra cantine e caciotte,  salsicce  e pizze rustiche. "Ma come, escono un’altra volta? e io quando li interrogo?" geme la Sonaglini che programma tre compiti in classe alla settimana, Pasqua e Natale inclusi; "Questi li hai già accompagnati a teatro e adesso alla Galleria Borghese? Hanno avuto già troppi diversivi.", "Capace che poi pensano che la scuola è Bengodi..." conclude Alfredo, il prof di Elettronica, vagheggiando fra sé che magari a Bengodi c’è posto anche per lui.

E’ vero; li ho portati a teatro ed ho passato la mattinata in piedi passeggiando lungo le file delle poltroncine, come un vigilante nevrotico, perché ogni volta che si abbassavano le luci si udivano fischi, sghignazzate e versi intraducibili. Fortunatamente mi ha accompagnato Gabriella e insieme abbiamo controllato due classi. E’ stato necessario anche far capire che non si possono mettere i piedi sullo schienale delle poltrone della fila antistante, che non si fanno squillare telefonini, che non si mangia popcorn, né patatine al formaggio o al bacon che tra l’altro appestano l’aria con esalazioni da cibo per foche.
Frasi del tipo: "Ma che ce li porti a fare, in classe devono stare..." mi vengono appresso da una vita; e non mi sono troppo turbata nemmeno quando ho chiesto l’autorizzazione all’uscita e in Vicepresidenza, dove erano del consueto umore acidulo, mi hanno domandato "E chi ti sostituisce nelle altre classi?". Sempre per il solito motivo che nel corso A telematico non ci vuole andare proprio nessuno, nemmeno per una supplenza.
Non ho trovato la forza di polemizzare; e quindi ho ripercorso a memoria il tempo già perso in telefonate per la prenotazione, che si doveva chiedere con parecchie settimane di anticipo, la corsa fatta uscendo da scuola per trovare la banca aperta, la fila fatta allo sportello per versare, tramite il necessario bonifico, l’importo dei biglietti dei ragazzi, il fax di conferma dell’avvenuto bonifico, da allegare in fotocopia al fax che ero riuscita ad ottenere di inviare dalla segreteria in cambio di espressioni di infinita gratitudine. Dopo tutto non mi aspettavo ringraziamenti, ma nemmeno resistenze.
Ho dunque ascoltato l’obiezione assumendo un’aria svanita, ho glissato e… hanno ceduto.
Siamo andati. Ai ragazzi che preferivano essere accompagnati da me ho dato appuntamento alle otto davanti a scuola, agli altri, invece alle nove direttamente a Villa Borghese, davanti all’ingresso della Galleria.
A scuola sono comparsi solo i due Davide, gli altri sono andati per conto loro: qualcuno in motorino, ma molti con i mezzi pubblici.
Quando sono arrivata erano più o meno tutti già lì; sedicenni felici per la gita e per essere fuori al sole. Si sono sparsi nei prati di Villa Borghese smagliante nei verdi primaverili delle siepi sempreverdi, dei pini mediterranei, dei lecci, dei lauri, dei cipressi, dei platani, compresi quelli colossali piantati all’epoca del cardinale Scipione. Respiravano insolenti l’aria fresca e forse ne percepivano il profumo, anche se per tutti loro le piante sono soltanto e comunque alberi o fiori e non sanno distinguere un salice piangente dall’albero di Natale.
Mi hanno fatto notare "Ha visto, siamo venuti, siamo stati di parola." Dicevano così perché qualcuno è anche disposto ad anticipare i soldi del biglietto, ma poi vorrebbe considerarlo il giusto prezzo pagato per una mattinata di libertà, di non scuola.
Così ci siamo messi in fila all’ingresso;  ma quasi tutti avevano lo zaino e il casco che hanno dovuto consegnare al guardaroba mentre sospettosi mi chiedevano: "ma ce li ridanno poi?"
Si è quindi presentata la nostra guida: giovane, carina, professionale ed ostile. Mi sono chiesta come si fa ad avere ventitre o ventiquattro anni ed essersi già dimenticati di averne avuti sedici o diciassette.
Mi ha comunicato che sarei stata considerata responsabile per eventuali vandalismi causati dai miei studenti che, essendo di Istituto Tecnico, erano certamente meno preparati e sensibili di quelli del Liceo Classico.
Responsabile in che senso? Con quali mezzi avrei potuto eventualmente risarcire un danno, pur minimo o virtuale che fosse, causato nel visitare le opere del Canova e del Bernini, del Correggio, di Tiziano e Raffaello? E perché poi avrebbero dovuto danneggiare alcunché?
Infatti durante la visita non hanno quasi fiatato. Si appoggiavano l’un l’altro per non toccare nulla, trascinavano i piedi, e guardavano rilassati  gli splendori delle architetture, dei quadri, delle sculture. In realtà Ugo ha cercato di sfiorare qualcosa, una giovane giapponese molto graziosa incrociata per caso e troppo presa dal suo baedeker nipponico per badare a lui.
"Ragazzi piano; state vicini, non toccate nulla, non potete sedervi: sono arredi antichi." E, mentre la guida, veloce e schematica, ripeteva la sua lezione standard, chiedevo sottovoce a Fabio e Adriano, alcuni dei quasi umani: "Ricordi? abbiamo parlato della passione che nasce nel Rinascimento per il collezionismo d'arte e per il mondo antico; guarda i marmi e i soffitti affrescati. Il cardinale Scipione Borghese ha costruito queste stanze proprio per raccogliere i suoi tesori artistici: quadri, sculture, reperti romani... Che ne pensi di queste opere?", "Bello. Ma troppa roba", mentre Ugo che aveva inteso la domanda chiosava "Io mi venderei tutto; chissà quanto ci farei!"
E tuttavia due o tre di loro tentavano di interagire con la guida, proponevano qualche ingenua domanda e poi mi sussurravano "Mi sono interessato, non le faccio fare brutta figura!"
Non so se si debba credere che il contatto con il divino dell’arte innalzi e trasformi le menti e le anime; ma questo non è accaduto a quelle dei miei studenti; probabilmente se Orfeo in persona avesse suonato per loro avrebbero, al più, quasi civilmente sbadigliato o, alla peggio, ridacchiato.
La visita era terminata e non sembravano per nulla trasfigurati da tanta sublime bellezza, né hanno mostrato di aver percepito che avevano potuto accedere, senza attese, ad un luogo frequentato con  rispettosa meraviglia da visitatori di tutto il pianeta.

Però mi si sono affollati intorno chiedendo speranzosi : "Ha visto come ci siamo comportati bene? ci porta ancora fuori in gita? Adesso possiamo andare?"
Abbiamo riscattato gli zaini, i caschi e qualche giubbotto e poi subito fuori, al sole sul Piazzale del Museo Borghese e lungo la via dell’Uccelliera.
"Ragazzi come tornate?", "Con l’autobus… perché non viene con noi?" Era un loro modo per trasmettere un segnale affettivo generico, e tuttavia di partecipazione alle mie imprese.
Abbiamo riattraversato i prati lungo i viali già corsi al trotto moderato dalla carrozza di D’Annunzio/Sperelli e siamo arrivati sulla via Pinciana.
Davide P, il più alto, ha avvistato un autobus "Arriva il 910"  e subito infatti cominciava a recitare, come una litania vespertina l’itinerario completo del 910, compresi i capolinea, le fermate intermedie di andata e ritorno nonché le intersezioni con la metropolitana : "Mancini, Pinturicchio, Pannini, Melozzo da Forlì, Vignola, Tiziano, Pitagora....Rossini, Mercadante, Carissimi,….XX Settembre, Repubblica/metro A, Termini/metro A, B, e FS "…
Esibizionista, puntiglioso e maniacale Davide sa a memoria tutti i numeri e gli itinerari di tutti i mezzi pubblici di Roma.
Mauretto, invece, si era fomentato come al solito e strillava: "Correte saliamo, ci porta a Termini e poi prendiamo la Metro, venga venga pressorè!" Siamo saliti tutti insieme. Loro si sono infilati da qualsiasi porta aperta, senza inibizioni.
L’autobus era quietamente affollato da passeggeri diversi, e alcuni verosimilmente provenivano dai quartieri eleganti e signorili, (Pinciano, Parioli) collegati dalla linea. Signori distinti con l’eterno Burberry e signore in tailleur sportivo da cui si percepiva la costosa fragranza eau de parfum malgrado l’odore chimico dell’autobus, pensionati con l’ombrello nonostante il sole e alcune colf colorate e bene abituate che bisbigliavano in tono acuto, ma sottovoce tra di loro o al telefonino. L’ingresso dei miei ha causato una reazione immediata ed automatica di fastidio contenuto; sopraccigli inarcati, labbra piegate, sventolio di giornali e battiti nervosi di nocche guantate; qualche borsetta è stata più strettamente impugnata o serrata sotto morbide ascelle cachemirate, qualche orologio infilato sotto polsini fermati da gemelli cesellati. Non erano armati, non mordevano, non erano infetti; ma era come se avessero, tutte insieme, queste ad altre prerogative disgustose: non erano omologati. Loro invece erano evidentemente a proprio agio; si sono sistemati distribuendosi per tutto l’autobus, ma ne hanno occupato preferibilmente la parte centrale dove si sono seduti sui pochi posti liberi ammassandosi ai finestrini che hanno subito aperto come fanno sempre quando entrano in classe e spalancano le finestre, anche se fuori gela. Eccitati dal ritrovarsi tutti insieme hanno cominciato a sbraitare e a lanciarsi le solite battute mentre Davide P. imitava le voci dei professori e ripeteva le abituali frasi usate per imporre il silenzio. Ciò li ha ancora più accesi, ed hanno cominciato a cantare di tutto: da "Ma che ce frega ma che c’importa se l’oste ar vino ci ha messo l’acqua" agli inno per la Roma "Lo sai perché la mia vita è tutta giallorossa, c’è una ragione, ho la Roma dentro al cuore, AS Roma, io non vivo senza te!",  "Sotto la curva, la Roma sotto la curva!" fino a "Fratelli d’Italia", con tanto di ritornello onomatopeico. Ci mancava il patriottismo. Ovviamente ho cercato di farli smettere richiamandoli a mezza voce e tirandoli per le maniche: Diego! Marco! Simone!. Non si è dimostrata una buona idea, perché oramai si sentivano liberi e dispensati, "mica siamo a scuola pressorè!" e inoltre perché i viaggiatori dell’autobus, che non mi avevano subito identificata come insegnante accompagnatrice, sentendo i miei concitati rimproveri l’hanno capito e mi hanno guardato con aria di commiserazione e rimprovero insieme. I ragazzi si sporgevano dai finestrini agitando le sciarpe giallorosse e attirando l’attenzione dei passanti, per fortuna l’autista, se non altro, non ha protestato; ho reso grazie, in cuor mio, alla fede romanista che riusciva a stabilire casuali sprazzi di simpatia, contenuta, ma non repressa, anche in qualcuno tra i presenti meno formali. Una vicina ha solidarizzato sottovoce con me: "Sono in pensione, insegnavo alle medie; mi pare che andiamo sempre peggio, certo che questi sono parecchio vivaci; e in classe come sono?" "Sono…così; non conoscono mediazioni e compromessi con le situazioni.  Sono naturali, selvaggi e spontanei; ma mi dispiace che disturbino!" " Non si preoccupi… in fondo sono ragazzi." Per tutta risposta alle richieste di smettere,  hanno improvvisato un coro che secondo le loro intenzioni doveva essere in mio onore "Ricci alè, Ricci alè, Ricci alè!" (il mio cognome da sposata) considerandolo un gesto affettuoso verso me che, imbarazzata e congestionata, desideravo ormai soltanto diventare invisibile o almeno sprofondare. Appena l’autobus è arrivato a una fermata da cui potevo prenderne un altro qualsiasi sono scesa quasi fuggendo.
Hanno continuato perseguitarmi sbracciandosi dai finestrini e urlando saluti e il mio nome indifeso al vento dorato di Roma. E sono stata felice.

Questo è un capitolo del mio libro "La (mia) classe non è.doc" 

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