"Ma
che te li porti dietro a fare? Io non vado certo con gli alunni a visitare una
mostra o una galleria, e tanto meno a teatro" mi dice la collega sobria e austera,
loggionista, che non si perde una rappresentazione nemmeno se le viene la
scarlattina; "beati voi di lettere che andate con le classi ai Musei e non
pagate il biglietto" afferma il collega Varani-Grassi che racconta di aver
visitato in Umbria tutte le mostre e le opere del divin Perugino mentre omette
(eppur si vede!) di aver gozzovigliato tra cantine e caciotte, salsicce e
pizze rustiche. "Ma come, escono un’altra volta? e io quando li
interrogo?" geme la Sonaglini che programma tre compiti in classe alla
settimana, Pasqua e Natale inclusi; "Questi li hai già accompagnati a
teatro e adesso alla Galleria Borghese? Hanno avuto già troppi
diversivi.", "Capace che poi pensano che la scuola è Bengodi..."
conclude Alfredo, il prof di Elettronica, vagheggiando fra sé che magari a Bengodi c’è
posto anche per lui.
E’
vero; li ho portati a teatro ed ho passato la mattinata in piedi passeggiando
lungo le file delle poltroncine, come un vigilante nevrotico, perché ogni volta
che si abbassavano le luci si udivano fischi, sghignazzate e versi intraducibili.
Fortunatamente mi ha accompagnato Gabriella e insieme abbiamo controllato due
classi. E’ stato necessario anche far capire che non si possono mettere i piedi
sullo schienale delle poltrone della fila antistante, che non si fanno
squillare telefonini, che non si mangia popcorn, né patatine al formaggio o al
bacon che tra l’altro appestano l’aria con esalazioni da cibo per foche.
Frasi
del tipo: "Ma che ce li porti a fare, in classe devono stare..." mi
vengono appresso da una vita; e non mi sono troppo turbata nemmeno quando ho
chiesto l’autorizzazione all’uscita e in Vicepresidenza, dove erano del
consueto umore acidulo, mi hanno domandato "E chi ti sostituisce nelle
altre classi?". Sempre per il solito motivo che nel corso A telematico non
ci vuole andare proprio nessuno, nemmeno per una supplenza.
Non
ho trovato la forza di polemizzare; e quindi ho ripercorso a memoria il tempo
già perso in telefonate per la prenotazione, che si doveva chiedere con
parecchie settimane di anticipo, la corsa fatta uscendo da scuola per trovare
la banca aperta, la fila fatta allo sportello per versare, tramite il
necessario bonifico, l’importo dei biglietti dei ragazzi, il fax di conferma
dell’avvenuto bonifico, da allegare in fotocopia al fax che ero riuscita ad ottenere
di inviare dalla segreteria in cambio di espressioni di infinita gratitudine.
Dopo tutto non mi aspettavo ringraziamenti, ma nemmeno resistenze.
Ho
dunque ascoltato l’obiezione assumendo un’aria svanita, ho glissato e… hanno
ceduto.
Siamo
andati. Ai ragazzi che preferivano essere accompagnati da me ho dato
appuntamento alle otto davanti a scuola, agli altri, invece alle nove
direttamente a Villa Borghese, davanti all’ingresso della Galleria.
A
scuola sono comparsi solo i due Davide, gli altri sono andati per conto loro:
qualcuno in motorino, ma molti con i mezzi pubblici.
Quando
sono arrivata erano più o meno tutti già lì; sedicenni felici per la gita e
per essere fuori al sole. Si sono sparsi nei prati di Villa Borghese smagliante
nei verdi primaverili delle siepi sempreverdi, dei pini mediterranei, dei
lecci, dei lauri, dei cipressi, dei platani, compresi quelli colossali piantati
all’epoca del cardinale Scipione. Respiravano insolenti l’aria fresca e forse
ne percepivano il profumo, anche se per tutti loro le piante sono soltanto e
comunque alberi o fiori e non sanno
distinguere un salice piangente dall’albero di Natale.
Mi
hanno fatto notare "Ha visto, siamo venuti, siamo stati di parola."
Dicevano così perché qualcuno è anche disposto ad anticipare i soldi del
biglietto, ma poi vorrebbe considerarlo il giusto prezzo pagato per una
mattinata di libertà, di non scuola.
Così
ci siamo messi in fila all’ingresso; ma quasi tutti avevano lo zaino
e il casco che hanno dovuto consegnare al guardaroba mentre sospettosi mi
chiedevano: "ma ce li ridanno poi?"
Si
è quindi presentata la nostra guida: giovane, carina, professionale ed ostile.
Mi sono chiesta come si fa ad avere ventitre o ventiquattro anni ed essersi già
dimenticati di averne avuti sedici o diciassette.
Mi
ha comunicato che sarei stata considerata responsabile per eventuali vandalismi
causati dai miei studenti che, essendo di Istituto Tecnico, erano certamente
meno preparati e sensibili di quelli del Liceo Classico.
Responsabile
in che senso? Con quali mezzi avrei potuto eventualmente risarcire un danno,
pur minimo o virtuale che fosse, causato nel visitare le opere del Canova e del
Bernini, del Correggio, di Tiziano e Raffaello? E perché poi avrebbero dovuto
danneggiare alcunché?
Infatti
durante la visita non hanno quasi fiatato. Si appoggiavano l’un l’altro per non
toccare nulla, trascinavano i piedi, e guardavano rilassati gli
splendori delle architetture, dei quadri, delle sculture. In realtà Ugo ha
cercato di sfiorare qualcosa, una giovane giapponese molto graziosa incrociata
per caso e troppo presa dal suo baedeker nipponico per badare a lui.
"Ragazzi
piano; state vicini, non toccate nulla, non potete sedervi: sono arredi
antichi." E, mentre la guida, veloce e schematica, ripeteva la sua lezione
standard, chiedevo sottovoce a Fabio e Adriano, alcuni dei quasi umani:
"Ricordi? abbiamo parlato della passione che nasce nel Rinascimento per il
collezionismo d'arte e per il mondo antico; guarda i marmi e i soffitti
affrescati. Il cardinale Scipione Borghese ha costruito queste stanze proprio
per raccogliere i suoi tesori artistici: quadri, sculture, reperti romani...
Che ne pensi di queste opere?", "Bello. Ma troppa roba", mentre
Ugo che aveva inteso la domanda chiosava "Io mi venderei tutto; chissà quanto
ci farei!"
E
tuttavia due o tre di loro tentavano di interagire con la guida, proponevano
qualche ingenua domanda e poi mi sussurravano "Mi sono interessato, non le
faccio fare brutta figura!"
Non
so se si debba credere che il contatto con il divino dell’arte innalzi e
trasformi le menti e le anime; ma questo non è accaduto a quelle dei miei
studenti; probabilmente se Orfeo in persona avesse suonato per loro avrebbero,
al più, quasi civilmente sbadigliato o, alla peggio, ridacchiato.
La
visita era terminata e non sembravano per nulla trasfigurati da tanta sublime
bellezza, né hanno mostrato di aver percepito che avevano potuto accedere,
senza attese, ad un luogo frequentato con rispettosa meraviglia da
visitatori di tutto il pianeta.
Però
mi si sono affollati intorno chiedendo speranzosi : "Ha visto come ci
siamo comportati bene? ci porta ancora fuori in gita? Adesso possiamo
andare?"
Abbiamo
riscattato gli zaini, i caschi e qualche giubbotto e poi subito fuori, al sole
sul Piazzale del Museo Borghese e lungo la via dell’Uccelliera.
"Ragazzi
come tornate?", "Con l’autobus… perché non viene con noi?" Era
un loro modo per trasmettere un segnale affettivo generico, e tuttavia di
partecipazione alle mie imprese.
Abbiamo
riattraversato i prati lungo i viali già corsi al trotto moderato dalla
carrozza di D’Annunzio/Sperelli e siamo arrivati sulla via Pinciana.
Davide
P, il più alto, ha avvistato un autobus "Arriva il 910" e
subito infatti cominciava a recitare, come una litania vespertina l’itinerario
completo del 910, compresi i capolinea, le fermate intermedie di andata e
ritorno nonché le intersezioni con la metropolitana : "Mancini,
Pinturicchio, Pannini, Melozzo da Forlì, Vignola, Tiziano, Pitagora....Rossini,
Mercadante, Carissimi,….XX Settembre, Repubblica/metro A, Termini/metro A, B, e
FS "…
Esibizionista,
puntiglioso e maniacale Davide sa a memoria tutti i numeri e gli itinerari di
tutti i mezzi pubblici di Roma.
Mauretto,
invece, si era fomentato come al solito e strillava: "Correte saliamo, ci
porta a Termini e poi prendiamo la Metro, venga venga pressorè!"
Siamo saliti tutti insieme. Loro si sono infilati da qualsiasi porta aperta,
senza inibizioni.
L’autobus
era quietamente affollato da passeggeri diversi, e alcuni verosimilmente
provenivano dai quartieri eleganti e signorili, (Pinciano, Parioli) collegati
dalla linea. Signori distinti con l’eterno Burberry e signore in tailleur
sportivo da cui si percepiva la costosa fragranza eau de parfum malgrado
l’odore chimico dell’autobus, pensionati con l’ombrello nonostante il sole e
alcune colf colorate e bene abituate che bisbigliavano in tono acuto, ma
sottovoce tra di loro o al telefonino. L’ingresso dei miei ha causato una
reazione immediata ed automatica di fastidio contenuto; sopraccigli inarcati,
labbra piegate, sventolio di giornali e battiti nervosi di nocche guantate;
qualche borsetta è stata più strettamente impugnata o serrata sotto morbide
ascelle cachemirate, qualche orologio infilato sotto polsini fermati da gemelli
cesellati. Non erano armati, non mordevano, non erano infetti; ma era come se
avessero, tutte insieme, queste ad altre prerogative disgustose: non erano
omologati. Loro invece erano evidentemente a proprio agio; si sono sistemati
distribuendosi per tutto l’autobus, ma ne hanno occupato preferibilmente la
parte centrale dove si sono seduti sui pochi posti liberi ammassandosi ai
finestrini che hanno subito aperto come fanno sempre quando entrano in classe e
spalancano le finestre, anche se fuori gela. Eccitati dal ritrovarsi tutti
insieme hanno cominciato a sbraitare e a lanciarsi le solite battute mentre
Davide P. imitava le voci dei professori e ripeteva le abituali frasi usate per
imporre il silenzio. Ciò li ha ancora più accesi, ed hanno cominciato a cantare
di tutto: da "Ma che ce frega ma che c’importa se l’oste ar vino ci ha
messo l’acqua" agli inno per la Roma "Lo sai perché la mia
vita è tutta giallorossa, c’è una ragione, ho la Roma dentro al cuore, AS Roma,
io non vivo senza te!", "Sotto la curva, la Roma
sotto la curva!" fino a "Fratelli d’Italia", con tanto di
ritornello onomatopeico. Ci mancava il patriottismo. Ovviamente ho cercato di
farli smettere richiamandoli a mezza voce e tirandoli per le maniche: Diego!
Marco! Simone!. Non si è dimostrata una buona idea, perché oramai si sentivano
liberi e dispensati, "mica siamo a scuola pressorè!" e inoltre perché
i viaggiatori dell’autobus, che non mi avevano subito identificata come
insegnante accompagnatrice, sentendo i miei concitati rimproveri l’hanno capito
e mi hanno guardato con aria di commiserazione e rimprovero insieme. I ragazzi
si sporgevano dai finestrini agitando le sciarpe giallorosse e attirando
l’attenzione dei passanti, per fortuna l’autista, se non altro, non ha
protestato; ho reso grazie, in cuor mio, alla fede romanista che riusciva a
stabilire casuali sprazzi di simpatia, contenuta, ma non repressa, anche in
qualcuno tra i presenti meno formali. Una vicina ha solidarizzato sottovoce con
me: "Sono in pensione, insegnavo alle medie; mi pare che andiamo sempre
peggio, certo che questi sono parecchio vivaci; e in classe come sono?"
"Sono…così; non conoscono mediazioni e compromessi con le situazioni. Sono
naturali, selvaggi e spontanei; ma mi dispiace che disturbino!" " Non
si preoccupi… in fondo sono ragazzi." Per tutta risposta alle richieste di
smettere, hanno improvvisato un coro che secondo le loro intenzioni
doveva essere in mio onore "Ricci alè, Ricci alè, Ricci alè!" (il mio
cognome da sposata) considerandolo un gesto affettuoso verso me che,
imbarazzata e congestionata, desideravo ormai soltanto diventare invisibile o
almeno sprofondare. Appena l’autobus è arrivato a una fermata da cui potevo
prenderne un altro qualsiasi sono scesa quasi fuggendo.
Hanno
continuato perseguitarmi sbracciandosi dai finestrini e urlando saluti e il mio
nome indifeso al vento dorato di Roma. E sono stata felice.