venerdì 16 dicembre 2011

Togliere ai poveri per dare ai ricchi

A volte non basta, o forse non serve, un discorso ragionato. A volte reagisco d'istinto. È proprio in questi casi che un flusso di pensieri e sentimenti chiede di esprimersi subito, di uscire allo scoperto anche in una forma imperfetta e grezza, un grumo, in bilico tra sintesi e invettiva.
Una di queste reazioni mi è sorta dall'ascoltare, in questi giorni, ed oggi in particolare, parole per me inaccettabili come la recentissima: paghino anche "i meno abbienti".
L'espressione "i meno abbienti" che si spende e spande per non parlare della realtà della vera emergenza; ossia dei tanti poveri che ogni giorno aumentano di numero nella nostra sventurata realtà nazionale e non, mi sembra particolarmente offensiva. Particolarmente quando "i meno abbienti" ossia i poveri sono chiamati a pagare. I "meno abbienti" appunto: proprio quelli a cui si dovrebbe maggiore solidarietà ed attenzione, non necessariamente in forme di beneficenza o elargizioni umilianti, anche perché, in buona e concreta sostanza, parliamo di famiglie con bambini, e non di fantomatici bamboccioni a paghetta di mamma e papà, parliamo di persone che hanno lavorato davvero una vita, parliamo di famiglie con vecchi e malati, di persone deboli o impossibilitate ed incapaci di avere privilegi e un tenore di vita elevato.
A questi si vuole, cercando anche di orientare l'opinione pubblica perché si acconsenta volentieri, togliere.
A questi si vuole rubare il poco.
A questi spetta il nome di ladri dei poveri.
Ecco spiegato, casomai interessi, il senso di questa mia protesta in versi liberi.

Voi che togliete ai poveri

Il quarto stato - di Giuseppe Pelizza da Volpedo.
Un'immagine che parla alle coscienze


Voglio chiamare rapina,
quel che togliete ai poveri,
vorrei lanciarvi contro
quel che vi meritate:
sentimenti di pietra
come l’ira del giusto,
la sprezzante fatica,
lo sgomento innocente,
diffidenze di madri,
e dei vecchi i sospetti.

Vorrei chiamarvi servi
delle vostre bandiere,
quelle dell’apparenza
strisciante che v’inquina.
Ma non vi lanceremo
l’odio che meritate;
quello che odiamo, è chiaro
anche troppo, è il disegno
di quello che volete
e contro noi  tramate.  

Vorrei dirvi briganti,
ma voi non siete uomini:
perciò colpire i poveri
lo chiamate equità.
La rabbia vi fa gioco
nella vostra partita
volete la violenza
la vendetta tentate,
ma non ci cascheremo:
sbranatevi da soli.

Vorrei chiamarvi ladri,
voi che togliete ai poveri,
vorrei lanciarvi contro
quel che vi meritate
come Dante ai rognosi
ai ladri ed ai ruffiani
o agli usurai già gonfi
d’acqua che interna soffoca
voi vi soffocherete.

Voi che togliete ai poveri
solo parole e sdegno
vi arrivino roventi:
non siamo come voi.
Se pensate di averci
sotto il vostro tallone
toglietevi le sete,
lane preziose e fronzoli
vi troverete marci
sotto maschere putride.

Vorrei chiamarvi ladri,
perché togliete ai poveri,
vorrei lanciarvi contro
quel che vi meritate. 
Vi lasciamo alla vostre
pingui borie e arroganze .
Che vi soffocheranno
anche senza di noi.

mercoledì 14 dicembre 2011

Ettore - Segnali di vita

Sfoglio, a volte, gli album con le foto del tempo già vissuto. Ad aprirli ci vuole la frazione di secondo, ma poi è come entrare nella macchina del tempo e volerci rimanere. Guardo le immagini e mi arrivano pensieri, come una musica con parole a lungo sedimentate che continuano a parlare di cambiamento. Una canzone. Il tempo cambia molte cose nella vita il senso le amicizie le opinioni che voglia di cambiare che c'è in me si sente il bisogno di una propria evoluzione sganciata dalle regole comuni da questa falsa personalità. L’effetto è quello di guardarsi allo specchio in modo diverso e riconoscersi in quell’immagine, o forma, ritrovando se stessi come si è dentro, e non come qualcosa da esporre agli altri.Una nostra comune immagine riflessa (dove, come diceva un vecchio film, non c’è mai la verità perché quel che è destra è sinistra e quel che è sinistra è destra) non ci sempre ci soddisfa. Invece, se scrutassimo nello specchio degli occhi dell’animo, io credo che quello che vediamo potrebbe piacerci. No, non si tratta di rimpianti o nostalgia. Si tratta di voler bene ciò che siamo e, in buona coscienza, ciò che siamo stati. Per questo non cerco mai nessun surrogato del paradiso, per questo non voglio dimenticare nulla. Il tempo, è vero, cancella e cambia molte cose, ma solo ciò che non abbiamo davvero vissuto a cuore aperto, mentre ci fa anche amare di più tutto ciò che, come naufraghi senza tempesta, vogliamo ostinatamente portare con noi. Guardo, adesso, immagini scattare negli anni settanta, lo stesso periodo in cui sono nate le mie figlie, tuttavia io le vedo e sento simili a quelle della mia infanzia; mi convinco che non sarebbero troppo diverse e penso che sarebbe bello se in tanti si cominciasse ad aprire i nostri cassetti per mettere in circolazione tutte le vecchie foto riposte tra ricordi e sentimenti. Ci sono stati anni in cui tutto cambiava e il modo progrediva velocemente, ma il fondo dell’animo delle persone conservava un patrimonio di memorie e cultura, sentimenti e tradizioni. Ci sono stati anni in cui non siamo stati anime invase e sopraffatte o indifferenti. In quegli anni lo specchio era un oggetto ma era anche vanitas e un ragazzino si vestiva e metteva in ordine perché e come le mamme volevano fosse in ordine, e non come lo voleva la nike o un'altra marca qualsiasi e televisivamente permeante. E certamente non ci si vestiva o metteva in ordine per videizzarsi col telefonino. No, ripeto: Non si tratta di rimpianti o nostalgia. Si tratta di amare quello che siamo e, in buona coscienza, ciò che siamo stati e siamo rimasti senza tradimenti. Si tratta di lasciar parlare immagini da cui c’è ancora tanto da imparare su noi stessi. E’ con questo stato d’animo che mi sono ritrovata a guardar quelle ed altre immagini e ho chiesto di conoscere le storie che racchiudevano. Alcune me le hanno raccontate. Un racconto o una narrazione sono come un filo che si svolge meticolosamente da un gomitolo ben ordinato per diventare trama e tessuto artigianale o una maglia lavorata punto per punto. Ognuno ha una mano diversa e il tessuto o la maglia che sto costruendo io non potrà essere uguale ad un’altra. Ma in questo modo abbiamo già spezzato, senza rumore e definitivamente, un anello della catena dell’omologazione che ci ha portato dal mondo del sentimento e della ragione a quello della vanitas e del vuoto, che prima rifuggivamo. La storia che mi racconta, ad esempio un insegnante di una scuola sportiva è uno di quei fili di gomitolo che diventa una narrazione o tessuto. Sarà uguale e diversa? Non nella sostanza. Parla di Ettore, undici anni, che partecipa, nel dicembre del 197… alla Corsa delle tre contrade organizzata dalla Scuola Sportiva DEPA di Palermo. Nella foto, bellissima, si vedono tre ragazzini ed Ettore è il più alto. Ha un fisico asciutto e non sorride, ha i capelli un po’ arruffati e sembra affannato a differenza dei suoi compagni che sembrano tranquilli pur se presi dalla situazione. Il filo del gomitolo si dipana, e l’insegnante, perché questa storia dobbiamo narrarla insieme, mi racconta. “Ettore è nato in una famiglia che per tradizione ha lavorato con gli animali. Negli anni sessanta e settanta in seguito alla grande cementificazione del nostro quartiere che si estende dalle falde del Monte Pellegrino sino al mare, molti dei gruppi familiari che vivevano di allevamento del bestiame, continuarono questo lavoro non più in zone adibite a pascolo ma in stalla. Ettore ha aiutato la famiglia in questa fase. Lo ha fatto abbeverando le mucche, dando loro il fieno ed altri vegetali, aiutando il padre a trasportare l'erba raccolta alle pendici del monte, pulendo la stalla, distribuendo il latte munto presso le famiglie che lo richiedevano.” Dunque quel bambino quindi frequenta la scuola elementare e segue le lezioni; per lui sedersi al banco è come tirare un sospiro di sollievo e riposare il corpo per dare aria alla mente. “Nei periodi scolastici Ettore doveva svolgere parte di questi lavori durante la giornata, cercando di seguire anche le lezioni e di fare anche i compiti.” Ettore cresceva sano e robusto e, come è naturale che sia, provava un po’ d'invidia per gli altri ragazzini che non avevano di queste incombenze di lavoro.” Afferro quel filo e vedo Ettore correre verso la scuola sportiva e materializzarsi al fianco dei suoi insegnanti. Lo vedo sbrigarsi a finire con il bestiame, incombenza faticosa e che richiede accuratezza e precisione, per non perdere la possibilità di far parte di un gruppo e di seguire i suoi maestri. Per lui questi contatti sono ossigeno ed entrare nel campetto per presentarsi ai maestri è come spiccare finalmente il volo. Parallelamente penso che ragionare sulla sua condizione di bambino che aiuta la famiglia nel lavoro quotidiano e forse lasciarsi andare a giudizi anacronistici e moralistici parlando di lavoro minorile non abbia, oggi, nessun senso. La nostra presunzione moralista, dopotutto, si ferma sulla soglia di casa nostra e comunque lasciamo che il mondo vada come va. La condizione della vita quotidiana di Ettore era quella e non per scelta o accanimento, ma per ragioni storiche che dobbiamo accettare come tali. L’infanzia di oggi appare più tutelata ed ha garanzie formalmente diverse. Ma sulla probabilità che sia realmente più felice e fiduciosa sul senso dell’esistenza o che cresca genericamente meglio, abbiamo semplicemente staccato il tagliando di una scommessa che è tutta da verificare. Ora capisco quell’aria spettinata e lo sguardo che interroga e non dà nulla per scontato. Ogni attimo di scuola che per gli altri è un impegno per lui è invece un premio. “Alla DEPA “ mi dice ancora l’insegnante, “assieme alle attività proprie dei corsi della Scuola Sportiva abbiamo proposto gare di corsa, meeting di atletica leggera, tornei di calcio, etc con la partecipazione aperta a tutti i ragazzini del quartiere. Ettore, grazie a queste attività che hanno avuto sempre una valenza educativa, ha trovato l'ambito dove essere alla pari con gli altri ragazzini. Nei suoi periodi "liberi" ce lo ritrovavamo accanto sempre pronto ad accogliere il nostro assenso ad includersi nelle attività dei corsi.” Mi spiego anche le spalle e del ragazzo, nella foto leggermente curve, come se stesse per assumere la posizione di partenza e al tempo stesso si rilassasse in attesa dell’impegno di una competizione attesa e anelata. Mi spiego lo sguardo consapevole, da adulto. Le parole del suo insegnante documentano i fatti. “Ettore quando ha partecipato alla gara aveva 11 anni e frequentava la quinta elementare. La distanza della corsa era di circa 2 Km ed Ettore si è classificato tra i primi. Il percorso della gara lo abbiamo modificato per farla passare davanti la stalla di Ettore. Lui aspetta dunque solo il via per lasciar correre gambe e cuore, per slanciarsi a perdifiato gareggiando lungo le strade delle tre contrade, per confrontarsi con i compagni e magari accelerare al massimo negli istanti in cui passa davanti alla stalla della famiglia orgogliosa della sua partecipazione. Un passero, con il cuore grande, da uomo. Dopo la corsa tornerà a casa felice e continuerà il lavoro, finirà i compiti e si preparerà al riposo con la mente rivolta al suo domani che, lui spera, sarà diverso da quello di tutti gli altri. Segnali di vita nei cortili e nelle case all'imbrunire ….. “Inutile dire che noi insegnanti della DEPA tifavamo in modo un po’ velato per la vittoria di Ettore.” Tifiamo anche noi, seppure a distanza perché ora il tempo si è annullato e negli occhi di tutti c’è solo il numero 34 sulla maglia di Ettore, quel ragazzino asciutto che “dialogava con gli sguardi, con il sorriso maturo e intelligente, con la sua presenza sempre composta e che esprimeva fiducia, dialogava con la sua ricca e forte motricità”. La mattina della Corsa delle tre contrade Ettore svegliandosi non poteva sapere che dopo tanti anni si sarebbe ancora parlato della sua partecipazione alla gara. Ma anche se lo avesse saputo avrebbe probabilmente scrollato le spalle e pensato solo che si doveva sbrigare il più possibile per anticipare il lavoro. Ettore, un nome di famiglia, ma anche dell’eroe omerico che rappresenta insieme il mito della pietas famigliare e del coraggio ardito; Ettore 11 anni e tanti sogni a lui stesso indistinti. Ma l’impresa lo attende e non c’era tempo per pensare perchè uno dei suoi sogni è ora a portata di mano. Dunque si alza dal letto alla svelta per essere puntuale, alle nove nsieme agli altri ragazzi. Si veste: scarpe, calzoni lunghi, una maglietta su cui era già stato attaccato quel numero che è solo suo. Non era tempo di divise quello, né di maglie con lo sponsor o di marche con grandi firme: per tutti bastava la solita semplice maglietta e la determinazione ad esserci. I ragazzi di quegli anni sono ancora solo ragazzi, simili a quelli della via Pál. Non posso impedirmi di pensare ad una qualsiasi corsa di ragazzini oggi: denari e tempo da spendere per scegliere il look, la famiglia mobilitata, una colazione da campione del mondo in trasferta di lusso, le videocamere e telefonini in azione, parenti disposti lungo il percorso (in alcuni casi predisposti alla competizione o ad un tifo esagerato essi stessi). E poi? Poi nulla, si spengono le luci e molti non si chiedono “ti accorgi di come vola bassa la mia mente? E colpa dei pensieri associativi se non riesco a stare adesso qui.” Corri dunque Ettore! Siamo stati, e vogliamo ancora essere, simili a te; non certo migliori. Corri ancora Ettore perché la tua corsa è passione per la vita e le nostre anime non temeranno di specchiarsi nel vuoto. (Fine anni cinquanta, ero ragazzina, e giocavo a campana o correvo dietro a un palla. Ma prima di poter andare a giocare dovevo lavare i piatti e fare tutti i compiti. Appena era possibile scendevo subito sotto casa dove si giocava tutti all’Iliade. Sì perchè in prima media si studiava Omero, e nei cortili e nei campi della periferia della città dove vivevo allora noi passavamo i pomeriggi formando bande di Achei e Troiani. Io ero un guerriero acheo e avrei voluto essere Achille, ma quel ruolo spettava a Sergio, un ragazzino che si era procurato uno scudo di cartone (fatto con un piatto di quelli su cui appoggiare le torte di pasticceria) con relativa spada. Battaglie, scontri, duelli: corse e sassate. Il ruolo di Ettore era, ovviamente, di un ragazzino della banda opposta. Oggi vorrei essere nella sua.) Segnali di vita nel cortile e negli spazi all’imbrunire le luci fanno ricordare le meccaniche celesti.

L'amarena ed il tempo - di Mariaserena


L'amarena d'autunno












Arrossano a Novembre
le foglie d’amarena
ad una ad una lasciano
quasi un vuoto sui rami.

I tronchi tenui tendono
alle nuvole i rami,
e inizia un’altra vita
dai germogli autunnali.

Come un pensiero antico
tende a fruttare il nuovo
così dal ramo asciutto
fresca dolcezza attendo.

Non scorre invano il ciclo
delle stagioni e il tempo
frattanto lascio scorrere:
vecchio amico infinito.


giovedì 1 dicembre 2011

L'Isola Mare-Notte

L'Isola Mare-Notte. La fine dell'adolescenza

 Crepuscolo di mareggiata by Maria Serena Peterlin
Capì presto che la sua attrazione per il mare non era quella per giocare con la sabbia o le onde sollevate dal vento.
E nemmeno per la contemplazione struggente e banale di albe o tramonti, di lattiginosi cieli stellati, di aranciati fuochi meridiani.
L'attirava il respirare, l'ansimare, l'anelare; l'attraeva la forza espressa dalla marea, lo ipnotizzavano gli scogli su cui sentiva, indistintamente ancora, che i sogni potevano fracassarsi o vittoriosi proseguire, resi più forti.
Il mare gli si apriva come una strada; e sapeva, con irrazionale sicurezza, che ne avrebbe riconosciuto ogni pulsazione come un ritmo che era anche dentro di lui: la sua vita.
Imbronciato aveva fissato i suoi giochi da bambino: paletta, secchiello e soprattutto le formine (così le chiamavano) che riproducevano stelle e cavallucci marini, conchiglie e pesciolini. 
Per accontentare la mamma aveva provato anche ad usarle e aveva impastato la sabbia con l'acqua di mare, spolverato il fondo delle forme con altra sabbia asciutta, le aveva riempite con il miscuglio inumidito e ben pressato e rovesciate battendole con forza per ottenerne delle figure. Ma le ridicole creature sabbiose che ne uscivano si sbriciolavano: se lo meritano, aveva brontolato dentro di sé, sono noiose e finte.
Immaginava, quasi vedendola, la vita dei fondali, dove stelle e cavallucci, conchiglie e pesci dagli immensi occhi danzavano nell'acqua e nel sale dando senso, origine e durata al loro contrario: aria e luce.
Provava ad immaginarsi sommerso da quel mare letto nei libri di scuola, ma più ancora nelle favole. Allora tratteneva il respiro, vedeva se stesso guizzante tra le altre creature e prepotente e felice pensava che sì, per lui sarebbe stato possibile, forse facile vivere anche là sotto;  e che avrebbe fatto a meno della sensazione diretta e violenta dell'aria e della luce purché tutto fosse ridotto all'essenziale; e finalmente laggiù anche i rumori sarebbero stati spenti e  le paure avrebbero taciuto.
 Intanto trascorreva le ore seduto sull'orlo del confine tra acqua e sabbia; le gambe distese che aspettavano le onde, appoggiato sulle braccia, allungate a compasso all'indietro, con le mani sprofondate sulla rena asciutta e ancora calda. 
Teneva gli occhi chiusi e cercava di indovinare l'arrivo susseguente delle ondate, dei colpi del mare. 
Lo riscuoteva la voce di qualche ragazzino come lui; solo allora si alzava e si curvava come per togliere dalle gambe gli schizzi dell'acqua salata e nella stessa posizione restava qualche istante: le mani sulle ginocchia, gli occhi ancora connessi alla spuma che andava e veniva, il respiro ormai sincronizzato su quella misura acqua-terra.
Però una sera era rimasto talmente a lungo che la marea era risalita fino a circondarlo; e lui per nulla impaurito si era lasciato andare mentre, quasi sdraiato tra acqua e sabbia, afferrava per gioco qualche granchio disorientato che non riusciva a riguadagnare il mare.
Il sole non c'era già più e adesso le ombre avevano uno spessore più freddo e più limpido. 
Si accorse che non voleva tornare, e che voleva rimanere lì senza darsi un limite di tempo, che voleva capire cosa si prova quando la linea del cielo si confonde con quella delle acque, quando nel buio si alza il vento caldo della terra e cerca di gettarsi tra le onde. 
Voleva essere lì e capire cosa si sente quando, assente la luce, non sono più i sensi e la mente, ma sono solo il cuore e la pelle a captare e ricevere come un unico esteso organo percettore.
Gli sembrò che potesse arrivare quel momento, ed era anzi sicuro di aver capito il come, il dove, il quando.
Avrebbe ghermito lui quell'acqua infinita, superati quegli scogli e navigato sempre verso occidente, dove anche il sole si lascia cadere, per raggiungere la sua meta. 
Avrebbe pilotato da solo e sarebbe riuscito ad approdare alla fine del viaggio. E avrebbe saputo di essere giunto quando la linea del cielo e del mare si fossero di nuovo confuse senza più luce e il vento caldo della terra si fosse finalmente placato nelle onde.  

Nella sua Isola.